V

LO «ZIBALDONE» DEL ’20-21 E LA POETICA DELLE «CANZONI»

Come già dicevo parlando della Vita solitaria e del Sogno la nuova direzione di idilli-elegiaci viene come diluendo la sua forza – cosí bene operante nella Sera del dí di festa – e perdendo l’attrazione che aveva esercitato sul Leopardi, il quale, nello stesso periodo ’20-21, conduce avanti soprattutto la formidabile e crescente esplorazione dello Zibaldone, dalle cui componenti piú compatte e dominanti egli viene sollecitato – verso la fine del ’21 – ad una nuova ripresa poetica, compatta e in denso sviluppo fino a configurarsi come un vero e proprio ciclo poetico male interpretabile fuori del rapporto che lega componimento a componimento e i successivi componimenti allo sviluppo del pensiero dello Zibaldone, fra espressione delle sue posizioni consolidate e brusche intuizioni che ne accentuano e ne rompono e sollecitano lo sgorgo problematico fino ad aprirlo a vere e proprie feconde contraddizioni, anticipatrici di un capovolgimento dello stesso sistema della natura e delle illusioni come il Leopardi lo veniva assiduamente elaborando in quegli anni.

Pensiero e poesia si agevolano e si complicano in un richiamo tutt’altro che meccanico e in un rapporto fecondo, lontanissimo da un ipotizzato «prima» del pensiero rispetto alla poesia, essa stessa, con la sua forza intuitiva, capace di elaborare prospettive che spesso sopravanzano il consolidamento analitico del processo conoscitivo-speculativo, magari in forme piú brusche e perciò – come vedremo specie nel caso del Bruto minore – quasi bisognose di forme eccessive ed enfatiche a colmare l’immediatezza meno meditata di nuove intuizioni.

Ma se quel ricambio e quella collaborazione devono essere ben rilevati (come poi dovrà farsi nei rapporti fra il pensiero dello Zibaldone e le Operette morali), ciò non toglie che l’inizio del nuovo ciclo (che corre attraverso le sei canzoni, del ’21-22, dalle Nozze della sorella Paolina all’Inno ai Patriarchi) scatti dal lungo attrito dello Zibaldone – che quantitativamente occupa piú di metà dell’opera, come poi la seconda parte del ’23 ne occuperà piú di un quarto[1] – in cui già intuizioni ed elaborazione analitica prospettano – nella prosa lucida e densa, ragionativa e morale-poetica di quel singolare documento diaristico, ma non semplicemente fatto di appunti slegati e privi di raggruppamenti saldi e duttili, di scansioni e fasi – una collaborazione vivacissima e tormentosa (pur nel pacato procedere di autospiegazione nel limpido specchio di una intelligenza di straordinaria precisione e di strenua volontà di esaurienza) delle forze dell’intera personalità leopardiana con l’impiego di tutti i suoi strumenti euristici e fantastici, critici ed intuitivi entro un limite medio di corretto procedimento filosofico-morale che riassorbe – non elimina – le spinte fervide dell’immaginazione, della necessità etica, della sofferta esperienza autobiografica.

Nella sofferta esperienza autobiografica leopardiana di questi anni crescono e si urtano, con sbalzi e alternanze drammatiche, il sentimento doloroso del carcere recanatese e paterno, la fondamentale persuasione del proprio valore originale[2], l’avvertimento di una maledizione del destino che attraverso lo studio «matto e disperatissimo» ha condotto il poeta a una condizione disperata di salute[3], la volontà di resistenza implacabile e agonistico-eroica[4] e la aspirazione profonda a tutto ciò che gli è negato: vita di affetti e di rapporti, di amicizia generosa[5], impiego di sé e delle proprie forze in un contesto ambientale diverso che il Leopardi non si stancò di ricercare – dopo la fuga fallita del ’19 – ora puntando su di una cattedra universitaria a Bologna ora su di un impiego alla Biblioteca Vaticana.

E a tale posizione di disperata resistenza e di volontà attiva di intellettuale combattivo e anticonformista corrisponde una prospettiva di scrittore impegnato in una missione di azione pubblica e pragmatica documentata nel programma di «disegni letterari» del ’20-21[6], fra i quali basti almeno indicare l’argomento di un Elogio o Vita del generale polacco Cosciusco («per rispetto alla somiglianza che hanno le sventure della Polonia, a cui questo Generale volle far riparo, con quelle dell’Italia».... «inserire in questo lavoro quei pensieri che ho scritto intorno al raffreddamento dell’amor patrio a proporzione che coll’incivilimento cresce l’egoismo»), il progetto di un «romanzo istorico... contenente la storia di qualche nazione, prima grande, poi depressa, poi ritornata in grande stato per mezzi che si dovrebbono fingere simili a quelli per li quali si può sperare o desiderare che l’Italia ricuperi il suo buon essere» («Il Romanzo dovrebb’essere pieno di eloquenza, rivolta tutta a muovere gl’Italiani, onde il libro fosse veramente nazionale e del tempo»), o il progetto di un trattato Della condizione presente delle lettere italiane («Dovrebb’essere un’opera magistrale nazionale e riformatrice, dove si paragonasse la letteratura italiana presente con quella delle altre nazioni, si mostrasse la necessità di libri filosofici elementari metafisici ec., istruttivi, di educazione ec.»[7]) o quello di scrivere «Vite de’ piú eccellenti Capitani e cittadini italiani... destinate a ispirar l’amor patrio per mezzo dell’esempio de’ maggiori, aiutato dall’eloquenza dello storico, da una frequente applicazione ai tempi presenti... Ma questi dovrebbero essere principalmente scelti fra quelli che sono atti a produrre il fine che ho detto, non trattandosi tanto di far un’opera di storia da servire a tutti i secoli e nazioni ec. quanto a questo tempo e agli Italiani». O ancora l’Argomento di un libro politico riconducibile alle meditazioni politiche dello Zibaldone, tra il ’20-21, specialmente per gli accenni all’amore della virtú presso gli antichi e alla necessità di rendere individuale l’interesse per lo stato.

Tali istanze educative e pragmatiche trovano d’altra parte un diretto appoggio nei pensieri dello Zibaldone, che nel ’20-21 ha – dopo gli avvii piú sporadici dal ’17 al ’19 – uno sgorgo monumentale (quasi la metà del libro «segreto» leopardiano) e una portata massiccia di elaborazione di pensiero a sostegno di una visione attiva della vita, di una concezione e di un comportamento attivi proposti al proprio tempo (e contro il proprio tempo) per rompere una lunga tradizione e una situazione attuale di inerzia e d’inazione, di crollo di tutti i valori sotto il predominio della ragione sterile ed astratta, associata ad un’educazione egoistica e rinunciataria. Come già si è detto, in questa fase dominata dal sistema della natura e delle illusioni e dalla sua antitesi con la ragione e la civiltà che ne deriva, il Leopardi aggredisce una certa nozione di ragione astratta e storicamente configurata come gretto razionalismo: una ragione separata dal resto delle forze totali dell’uomo che invade e distrugge tutte le cellule dell’intera personalità umana e della sua disponibilità sociale, distinta da quella ragione naturale[8], feconda e sana e da quella stessa filosofia o «ultrafilosofia» (come il Leopardi la chiama in un pensiero del 7 giugno 1820) che dovrebbe promuovere la «nostra rigenerazione» e che «conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicina alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo»[9].

Sicché l’ardente appello leopardiano alla natura non va inteso come reazionario tuffo nella barbarie, come irrazionalismo mistico, ma come lotta per una civiltà piú intera, per la integralità dell’uomo, per la sua intera vitalità da cui il Leopardi era potentemente attratto quanto piú egli si rifaceva non a posizioni mistiche-spiritualistiche, ma a posizioni sensistiche già cosí chiaramente presenti negli stessi «idilli» e postulava nell’uomo il bisogno fondamentale della felicità e di una felicità interamente terrena ed umana.

Proprio da quel bisogno, configurato (entro la ripresa del sensismo settecentesco) come «amor proprio», «amor di sé», senza di cui non esiste vita e vitalità, deriva infatti la sua biforcazione in eroismo (l’accezione alta dell’amor proprio) e in egoismo (l’accezione dell’amor proprio corrotto dalla gretta ragione ingenerosa e calcolatrice). L’eroismo è la forma in cui l’amor proprio si traduce nell’uomo intero, generoso, poetico, entusiastico, attivo, vicino alla natura come fu soprattutto nelle epoche della classicità greca e latina. L’egoismo è invece il vizio, la sigla abbietta dell’uomo contemporaneo, che, con la sua gretta e calcolatrice ragione, riduce la sorgente energica e generosa dell’amor proprio al tornaconto individuale, al conformismo interessato e impoetico. Sicché sulla via della natura e delle illusioni il Leopardi mirava ad un uomo che, sulla radice energica dell’amor proprio-eroismo, sia continuamente rivolto al bene pubblico, al bene della società e della patria (società concreta e proiezione dell’amor proprio) fino a quell’apparente paradosso del sacrificio di se stesso che ritorna ad esaltare l’ardente bisogno di felicità personale nel circolo inseparabile di un individualismo eroico e di una società fuori della quale l’uomo ripiomba nella sterile inattività e nel miserabile compiacimento di una securitas egoistica che conduce al tedio e alla noia, alla morte delle illusioni.

Eccoci tutti filosofi... Eccoci tutti egoisti. Ebbene siamo noi felici? Che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtú dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu piú felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, inazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?[10]

Da una conclusione come quella di questo pensiero del 21 gennaio 1821 si evince chiaramente la prospettiva profonda e come stendhaliana del Leopardi in questa fase di vitalismo e di moralità individuale-pubblica a fondo eroico-individualistico che domina anche – nel contrasto natura-ragione, antichi-moderni – nella forte tensione leopardiana alla meditazione sulla politica (si badi bene in anni in cui egli pur risentiva in un suo modo singolarissimo la problematica dei primi urti fra Restaurazione e moti liberali in Spagna e in Italia): quella politica che egli affermava essere la parte piú importante della filosofia morale (la filosofia per lui piú importante perché volta alla vita e al comportamento attivo) e che estendeva ed esaltava le forze e la soddisfazione di felicità del singolo alla vita e alla felicità di un popolo e di una società intera. Sicché ben si capisce come nello stesso pensiero-saggio del 22-29 gennaio 1821 in cui Leopardi esprimeva quelle sue convinzioni, egli prospettasse la sua preferenza per i regimi democratici-popolari, repubblicani della Grecia e di Roma e insieme rifiutasse, come forma ibrida e inutile alla rigenerazione dell’uomo naturale e di una società eroica e illuminata dalle felici illusioni, il compromesso delle monarchie «costitutive» (costituzionali) che proprio in quegli anni erano il modello dei liberali moderati, settari e privi per lui di consequenziarietà ideologica e morale, come chiarirà piú tardi.

D’altra parte l’elaborazione del sistema della natura e delle illusioni conduceva il Leopardi anche ad una presa di posizione essenziale sullo stesso problema religioso e sul cristianesimo, che ancora una volta ribadisce il carattere tormentato del suo sviluppo da, e contro, la giovanile educazione cattolica, e la sua prospettiva umana e mondana aliena da ogni vera attrazione mistica e trascendente.

Certo in questa fase il Leopardi cerca un raccordo analogico fra il suo sistema delle illusioni e quello della religione cristiana e cattolica di cui non lo interessa tanto la verità, e la verità rivelata, quanto l’utilità di una concordanza a sostegno del suo sistema (soprattutto l’idea del peccato originale come analoga con la sua idea dello snaturamento, dell’alienazione dell’uomo dalla natura e dallo stato naturale per opera della corrotta e corruttrice ragione) e l’utilità in sé e per sé di un «debole» e inferiore sostegno delle illusioni dopo la caduta delle civiltà classiche. La religione cristiana è vista cosí come una via secondaria, un surrogato della natura, in quanto ha pure suscitato entusiasmo e fede di contro alla secca ragione; sicché in un pensiero del 18-20 agosto 1820 dirà: «l’uomo non vive d’altro che di religione o di illusioni»[11]. Ma è chiaro che per il Leopardi la via vera e personale è quella delle illusioni e che il «suo» sistema è quello della natura e delle illusioni.

Non ingannino quei progetti e schemi di Inni cristiani che, databili tra la fine del ’19 e il periodo ’20-21 (e già preannuncio di prospettive svolte nell’Inno ai Patriarchi), intendevano soprattutto elaborare poeticamente (ma – si ricordi bene – non realizzandolo poi in compiute poesie, abbandonandolo a uno stato di progettazione di scarsa congenialità intima) un materiale di miti tolto dal Vecchio e Nuovo Testamento come a riprova che anche dalla mitologia biblica e cristiana era possibile per uno scrittore moderno trarre elementi per la propria poesia.

In realtà si trattava di una verifica, scarsamente ispirata, della esteticità dei miti religiosi della «religione nostra» come religione ancora professata dal popolo e che «ha moltissimo di quello che somigliando alla illusione è ottimo alla poesia»[12].

Ma – si badi bene – «somigliando» (il corsivo è nostro) alla illusione, e cioè sempre in quella specie di analogia secondaria e sussidiaria delle risorse della religione rispetto alle illusioni naturali piú proprie della prospettiva leopardiana.

E si noti che anche là dove si parla di santi, della madonna, l’interesse si sposta sempre decisamente dal piano religioso a quello patriottico, eroico, poetico (non senza qualche eco, sulla «bellezza della religione», di quello Chateaubriand che il giovanissimo Leopardi aveva pur risentito nel suo contatto con ideali della Restaurazione per poi risolutamente combatterlo come ogni malefica attrazione spiritualistica) e che, nello stesso abbozzo dell’Inno al Redentore e nel suo Supplemento, Cristo è veduto soprattutto come testimone della infelicità dell’uomo (quello che sarà poi per Leopardi la vera vittima innocente priva di ogni «redenzione» che non nasca dalla sua stessa forza di lucida ed eroica persuasione della verità) e che il ricorso a lui è singolarmente rimandato, in sede personale, a un momento in cui non rimarrà al poeta «altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere». Né l’intervento di Cristo nella storia umana rappresenta una vera cesura e un vero rinnovamento, ché salda rimane negli stessi Inni la sproporzione fra l’epoca antica-classica e quella moderna tanto peggiore se al tempo della religione pagana «era allora la nostra gente assai meno trista che il suo dolore non conosceva e il suo crudele fato».

Sicché – malgrado riflessi ancora persistenti della giovanile fede cattolica (scartata ormai quella speranza nell’al di là che trova i suoi ultimi veri bagliori nel ’19[13]) e residui anche piú persistenti dell’idea di Dio ancora fondamento del sistema della natura, ma in quella sempre piú sostanzialmente identificata e sempre piú comunque freddamente considerata – anche questi Inni non possono essere addotti come documento di una vera e profonda religiosità cristiana[14].

Il Leopardi infatti già in quest’epoca mancava della fondamentale sottomissione e accettazione delle sventure come Heimsuchung, come visita provvidenziale e salvatrice, come «provvida sventura». Si pensi, fra l’altro, ad una lettera a lui della affettuosa e finissima zia, Ferdinanda Melchiorri, del 17 gennaio 1821 che opponeva alla disperazione dell’amato nipote una ferma lezione religiosa: «Per quanto siano grandi le nostre sventure, noi non dobbiamo ricusare di sostenerle, allorché il liberarcene non ci sia possibile... L’uomo virtuoso e cristiano si ricorda di esser soggetto al suo Dio, e però bacia la mano che lo percuote; si ricorda che ha nel suo Dio un Padre che veglia sopra di lui, che lo ama, che non lo abbandonerà; quindi apre a lui il suo cuore, gli chiede con ispirito di sottomissione ciò che gli è necessario, e poi attende dal medesimo la diminuzione de’ suoi mali»[15]. Dove colpisce anzitutto quella frase «bacia la mano che lo percuote» che sembra avere tarda ma tremenda risposta nei versi finali di Amore e Morte: «la man che flagellando si colora / nel mio innocente / non ricolmar di lode, / non benedir, com’usa / per antica viltà l’umana gente».

Ecco: Leopardi non accetta, non bacia la mano che lo percuote, e proprio nello Zibaldone del ’20-21 le concordanze fra il suo sistema e la religione cristiana (come via accessoria e secondaria di un «debole» risorgimento delle illusioni dopo la caduta delle antiche civiltà) trovano netta rottura nei durissimi giudizi sul cristianesimo non solo perché alfierianamente esso è sempre stato «favorevole al dispotismo» e predicando l’obbedienza in qualche modo inclina l’animo degli uomini da un’obbedienza spirituale ad una obbedienza temporale, ma perché «ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare e al pregare»[16], perché «è contrario alla natura» (come dice nel celebre pensiero sulla madre cristiana[17] che gioisce dei mali e sin della morte dei figli come liberazione loro dai peccati e via al Paradiso), perché «chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari»[18], perché «definisce per maggior favore e segno di maggior favore di Dio l’infelicità che la prosperità», ed è la sola religione che «faccia considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre bene... come la bellezza, la giovanezza...»[19], perché infine «surrogando un altro mondo al presente ed ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione, cioè nel suo vero spirito a distruggere il mondo, la vita stessa individuale (giacché neppur l’individuo è lo scopo di se stesso) e soprattutto la società, di cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggire le cose per non peccare? Impiegar la vita per preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere... Si veda da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla anzi un male e indirizzando la mira dell’uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di perfezione indipendente da lei, a cose di natura affatto diversa da quella delle cose nostre e dell’uomo»[20].

Cosí i pensieri contro l’ascetismo rinunciatario cristiano riconducono all’uomo, alla vita umana e terrena, al valore della vitalità, dell’entusiasmo, delle eroiche illusioni, dell’eroismo e dello stesso vigore fisico, al filone centrale che nello Zibaldone sorregge e prepara le prospettive delle canzoni e dell’intervento pubblico e pedagogico nella poesia, elaborando insieme e coerentemente una lotta sensistica contro le idee innate, contro le idee di assoluto, contro ogni concezione metafisica chiusa ed astratta. Ché insieme ad una imponente massa di pensieri che convergono sul valore del vigore spirituale e fisico («Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza di illusioni ec. Nel corpo servo anche l’anima è serva»[21]), e, ripeto, elaborano sottilmente una rete di princípi sensistici, sempre piú radicali ed aperti ad uno svolgimento di vero e proprio complesso e articolato materialismo, la stessa prospettiva letteraria e poetica del Leopardi di questo periodo è ben aperta da un pensiero che, già entro il ’22, ricorda l’idea dell’uomo intero, teso ad una vita piena ed attiva e quella dello scrittore, grande solo se porta in sé una radice di somma energia e di disposizione ad operare:

Se l’uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l’attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferire al fine), osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu né sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare piú e piú gran cose degli altri, non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii... non fosse piú disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell’Alfieri... anzi dice ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo[22].

Cosí anche nel folto filone di meditazione estetica e linguistica, valido in sé e per sé, ma strettamente connesso con tutti gli altri problemi del pensatore-scrittore, domina il sentimento vitale e naturale dell’energia e di un energico edonismo e pedagogismo attraverso le illusioni, che si chiarisce (assai differentemente dalle valutazioni di tipo lirico-puro e rondistico che tanto han puntato sui precorrimenti leopardiani della lirica pura e del frammento prosastico) nella convergenza di letteratura e azione e letteratura e stimolo all’agire, alla pienezza vitale, alla soddisfazione della felicità-energia. E se della lirica Leopardi dirà che essa è «la cima il colmo la sommità della poesia, la quale è la sommità del discorso umano»[23], quella stessa nozione di lirica è legata alla scelta, come veramente liriche, delle canzoni civili del Petrarca (il corpo maggiore del Canzoniere era attribuito all’«elegia») e al pensiero (che guida tanti altri pensieri assiepantisi verso la fine del ’21 in netta vicinanza alle nuove canzoni) secondo cui «la lettura della vera poesia; la quale destando emozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e vastissime e sublimissime... lo riempie quanto piú si possa a questo mondo»[24].

E cosí avviene anche nei pensieri sulla lingua e sul linguaggio poetico in cui – coerentemente al suo sistema della natura e delle illusioni – il Leopardi contrappone una lingua della ragione matematica, gelida (precisata soprattutto nella lingua francese) e una lingua poetica, energica e naturale, immaginosa ed attiva. Del linguaggio poetico caratteri essenziali e non sintomatici per la poetica di questo periodo sono la «rapidità e la concisione» che «piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, o cosí rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, non consiste in altro. L’eccitamento d’idee simultanee può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ec. Perché è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo cacciatore d’immagini? Perché queste immagini risultano in lui da una copia di parole e di versi, che non destano l’immagine senza lungo circuito, e cosí poco o nulla v’ha di simultaneo, giacché anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco appoco per le loro parti. Perché lo stile di Dante è il piú forte che mai si possa concepire, e per questa parte il piú bello e dilettevole possibile? Perché ogni parola presso lui è un’immagine ec. ec. Vedi il mio discorso sui romantici. Qua si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia descrittiva (assurda, in [se] stessa), e quell’antico precetto che il poeta (o lo scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile di Orazio (rapidissimo, e pieno d’immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di significato)»[25].

E proprio Orazio – molto esemplare per le canzoni del ’21, specie le due prime – sollecita un pensiero importantissimo per l’outrance con cui Leopardi in questo periodo attribuisce allo stile poetico di per sé – se rapido e conciso – una qualità poetica anche a parte la forza piú vera dei sentimenti espressivi. Anche con il solo stile poetico – se, ripeto, conciso e rapido – lo scrittore adempie alla sua principale missione di collaborazione di vitalità, di energia, di piacere, di preparazione all’azione. Sicché ben si vede come da ogni punto di vista nello Zibaldone si prepari la piattaforma della ripresa poetica del ’21 dai pensieri sulla natura e le illusioni a quelli sul vigore, l’entusiasmo, l’eroismo, a quelli sull’ascetismo cristiano, a quelli sulla lingua e sul linguaggio poetico che piú direttamente appartengono alla ricerca di una sperimentazione poetica ardua e complessa (e a volte persino faticosa e ingorgata) non per un aristocratico gusto ermetico, ma per la coerente volontà di una densità sollecitante l’animo del lettore (Leopardi pensa sempre alla destinazione della poesia), capace di coinvolgerlo e di stimolarlo – non solo coi contenuti parenetici e civili ma con lo stile, «moderatamente difficile» – ad una intensa attività dell’animo e ad emozioni attive e vitali. Lo scrittore (che tale non è se non disposto ad agire e non vivo alle emozioni forti della natura e delle illusioni, dell’amor proprio-eroismo) combatte cosí la sua battaglia per la civiltà e per la «rigenerazione» della propria patria e del tempo; sarà difficile cosí parlare per le canzoni del ’21-22 solo di retorica e di indigesta elucubrazione filosofica e pedagogica o ricercare in esse solo momenti e squarci di fantasia piú libera e «pura» senza capire la direzione di poetica (con tutte le sue componenti interne) in cui quelle canzoni nacquero e si realizzarono, svolgendosi in attrito fecondo che poté attingere, tra sforzo e impegno piú profondo, la grandezza dell’Ultimo canto di Saffo.


1 A verificare l’ampiezza del lavoro dello Zibaldone in varie fasi ed anni (e non perciò senz’altro l’importanza dei suoi pensieri in queste fasi) si ricordi che dal primo inizio del ’17 al ’19 compreso, lo Zibaldone consta di un centinaio di pagine, dal gennaio del ’20 alla partenza per Roma nel novembre del 22, consta di piú di 2500 pagine, nel soggiorno romano di sole 40, nel periodo recanatese del ’23 di piú di 1300, nel ’24 di circa 120, nel ’25-27 di circa 180, nel periodo pisano-recanatese del ’28-29 di altre 220 circa e dal ’30 al ’32 di due sole pagine (intendo sempre pagine del manoscritto leopardiano). E dunque le due fasi ininterrotte di maggiore applicazione allo Zibaldone sono quella del ’20-22 e – dopo l’intervallo romano – quella del ’23 precedenti le Operette morali e che nell’insieme rappresentano piú dei tre quarti di tutta la stesura.

2 «Rispondo che io come sarò sempre quello che mi piacerà, cosí voglio parere a tutti quello che sono; e di non esser costretto a fare altrimenti, sono sicuro per lo stesso motivo a un di presso, per cui Catone era sicuro in Utica della sua libertà. Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch’io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto alla illuminazione, li ringrazio cordialmente; quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col crivello» (a Pietro Brighenti, 21 aprile 1820, Tutte le op. cit., I, p. 1098).

3 «Dai 10 ai 21 anno io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio proprio travaglio. Il frutto delle mie fatiche è l’esser disprezzato in maniera straordinaria alla mia condizione, massimamente in un piccolo paese. Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna; la piú orrenda cosa che possa fare il giovane, ordinariamente pieno di belle speranze, ma il solo piacere che rimanga a chi dopo lunghi sforzi, finalmente s’accorga d’esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino» (lettera cit.).

4 Si legga nella lettera al Brighenti del 22 giugno 1821 (Tutte le op. cit., I, p. 1122) il passo seguente che associa ad una specie di esortazione all’amico infelice una propria urgente dichiarazione: «Colui che disse che la vita dell’uomo è una guerra, disse almeno tanto gran verità nel senso profano quanto nel sacro. Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che se stesso. Eccetto quei pochissimi che sortiscono le facoltà del cuore, i quali possono aver dalla loro parte alcuni di questo numero: e voi sotto questo rispetto siete superiore a infiniti altri. Del resto o vinto o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere, e lottare, e insultare e calpestare chiunque vi ceda anche per un momento. Il mondo è fatto cosí, e non come ce lo dipingevano a noi poveri fanciulli. Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna e divertirsi a far volare la mia cenere in aria. Io vi prego con tutto il cuore a farvi coraggio, non perché non senta le vostre calamità, ché le sento piú delle mie: bensí credo che questa vita, e questo uffizio di combattere accanitamente e perpetuamente, sia stato destinato all’uomo e ad ogni animale dalla natura».

5 Si rilegga la lettera al Giordani del 18 giugno 1821 (Tutte le op. cit., I, p. 1121) animata dal senso letificante e stupito di trovare in lui un uomo «stupendo e incredibile» piú sollecito del bene e male altrui che del proprio, capace di permettere una confidenza totale.

6 Tutte le op. cit., I, pp. 367-373.

7 E si noti come in questo progetto sia importante – a definire la particolare natura del classicismo leopardiano – l’accenno polemico a un classicismo ornamentale e archeologico; «si notasse l’andamento che ora ha preso la letteratura, verso il classico e l’antico, si stabilissero i limiti necessari a questo andamento lodandolo però in generale, e mostrandolo necessario, ma inutile e dannoso senza l’unione della filosofia colla letteratura senza l’applicazione della maniera buona di scrivere ai soggetti importanti nazionali e del tempo senza l’armonia delle belle cose e delle belle parole».

8 Si veda il pensiero del 3 dicembre 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 141).

9 Zibaldone, 7 giugno 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 72).

10 Zibaldone, 21 gennaio 1821 (Tutte le op. cit., II, pp. 180-181).

11 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 97)

12 Tutte le op. cit., I, p. 337.

13 Si veda un pensiero dello Zibaldone (Tutte le op. cit., II, pp. 27-28), poi chiaramente negato in tutta la piú sicura e successiva prospettiva leopardiana.

14 Non sono d’accordo con le conclusioni del Getto nel saggio sugli Inni, raccolto nei suoi Saggi leopardiani, Firenze 1966, in generale assai cauto, ma troppo eccessivo per il valore di sincera religiosità dell’Inno al Redentore e di quelli al Creatore e a Maria. Del resto discordo nettamente dal Getto per la sua tesi generale sia nel finale del saggio citato (l’approdo di Leopardi ad una «religiosità negativa», ché Leopardi approdò ad una netta lotta contro la religione) sia in quello del saggio Storia della poesia leopardiana (nello stesso volume citato) che avverte nella Ginestra «un profumo amaro di inappagata nostalgia» del trascendente. Altro potrebbe essere il complesso discorso circa l’importanza della protesta metafisica leopardiana anche per una possibile direzione di nuove forme di religione o religiosità atea e che presupponga comunque la distruzione dell’«alto» e del «celeste», della compromissione del divino con l’ordine attuale della natura («non muove foglia che Dio non voglia!»). Si pensi almeno, in Italia, a posizioni come quella di Aldo Capitini (da Vita religiosa a La compresenza dei morti e dei viventi) che tanto deve alla lezione leopardiana di denuncia di insensibilità della natura («l’acqua di una piena copre egualmente un sasso e il volto di un bimbo», in Vita religiosa, Bologna 1942, p. 11) e del rifiuto dell’idea di Dio come compartecipe di una realtà chiusa e crudele.

15 G. L., Epistolario, a c. di F. Moroncini, Firenze 1935, II, pp. 104-105.

16 Zibaldone, 29 settembre 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 108).

17 Zibaldone, 25 novembre 1820 (Tutte le op. cit., II, pp. 134-135).

18 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 149).

19 Zibaldone, 4 giugno 1822 (Tutte le op. cit., II, p. 634).

20 Zibaldone, 13 settembre 1821 (Tutte le op. cit, II, pp. 470-471).

21 Zibaldone, 30 settembre 1820 (Tutte le op. cit., II, pp. 108-109).

22 Zibaldone, 30 maggio 1822 (Tutte le op. cit., II, p. 633).

23 Zibaldone, 18 settembre 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 106).

24 Zibaldone, 27 agosto 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 444).

25 Zibaldone, 3 novembre 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 546).